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  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 ottobre 1975
 
di Michelangelo Antonioni, con Jack Nicholson, Maria Schneider, Ian Hendry (Italia, 1974)
Il reporter dell'ultimo film di Antonioni ha due illustri predecessori: quello del personaggio femminile di L'AVVENTURA, l'opera che ha al mondo l'arte del regista. La Monica Vitti che, misteriosamente, scompare: dapprima ricercata, presto dimenticata dai suoi compagni, inghiottita nel nulla della fragilità dei rapporti umani, frantumata, anche nel ricordo, da quella incomunicabilità che il film di Antonioni doveva rendere celebre. Più ancora, il fotografo di BLOW UP, l'opera forse più compiuta del regista. Dove non solo i sentimenti, i ricordi, le personalità spariscono. Ma la realtà stessa, la presenza materiale della vita che la macchina fotografica avrebbe dovuto imprimere in modo indelebile sulla pellicola.

Come il fotografo di BLOW UP, anche il giornalista di REPORTER dovrebbe essere un testimonio, un mezzo di registrazione della verità; sia quella esteriore, degli individui, degli avvenimenti, che quella, ed ancor più dei sentimenti, delle giustificazioni morali, della ragione di essere. L'angoscia del protagonista è quella di fallire in questa sua ricerca della verità: sia professionalmente

(le interviste, i contatti con il Terzo mondo), sia sentimentalmente (i rapporti famigliari). Per il reporter questo fallimento significa non esistere più come tale, perdere la propria identità. Dal momento in cui Jack Nicholson deciderà di cambiarla, questa sua identità, di entrare nei panni e nella psicologia di un collega morto (tramite il semplice scambio di una foto su un passaporto), la sua è oramai una illusoria corsa liberatoria. In effetti egli è già morto: perché le convenzioni, la fragilità dei rapporti che lo legavano alla vita, hanno ormai strappato quel cordone che legavano il reporter alla realtà della quale egli doveva essere interprete.

Il cammino di Jack Nicholson verso la propria morte fisica, Antonioni lo descrive con una perizia di scrittura che è, a momenti, ineguagliabile. L'illusione del viaggio come fuga, dell'incontro con la natura (il paesaggio, le strade di Barcellona, la giovinezza della Schneider) Antonioni le fonde sapientemente con l'ineluttabilità dell'esito finale, l'angoscia crescente, la rassegnazione, la consapevolezza della propria fine. Che, fin dalle sequenze dell'albergo nel deserto, Jack Nicholson ci restituisce perfettamente.

Dei personaggi che potrebbero anche risultare marginali s'inseriscono senza difetti: cosi quello della moglie, nel proprio tardivo e drammatico tentativo di ricupero, o quello che Maria Schneider rende con grande sensibilità, confermandosi attrice di livello superiore. Sotto le vesti del racconto poliziesco, anche lo spettatore meno avvertito non resterà insensibile a dei momenti di intuizione espressiva che appartengono al grande cinema. Antonioni conosce il segreto dell'arte, che è quello di mostrarci l'impossibile. Di descriverci i sentimenti, le psicologie, il dramma interiore dei personaggi dietro alle apparenze esterne, quotidiani, banali.

Quando vuol mostrarci un istante di abbandono al piacere della vita del giornalista, Antonioni lo riprende sulla teleferica di Barcellona, mentre si libra come un uccello in volo sul mare. Quando deve rispondere alla Schneider che gli chiede “ma da che cosa scappi?”, l'occhio del regista ci mostra la strada, vuota, priva di inseguitori fisici, che si snoda dietro all'automobile in corsa. Ed una inquadratura, splendida, della ragazza che ormai ha capito di che fuga si tratti . Il piano-sequenza finale, sette minuti senza stacchi, allea il prodigio tecnico a quello dell'intuizione espressiva: mentre Nicholson, disteso sul letto di un alberghetto, attende la morte come un eroe di Hemingway la macchina da presa si muove, quasi impercettibilmente, verso la finestra, verso le sbarre di questa, verso una piazza assolata dove poche figure attraversano l'inquadratura.

E' l'ultimo prolungamento, verso la vita, del protagonista che muore. Quando la cinepresa supera le sbarre, saranno i suoni a farci intuire quello che sta succedendo dietro (o dentro) di noi. Poi, giunta nel centro della piazza, la cinepresa ruoterà di 180 gradi, rivolgendosi all'indietro: quello che ci mostrerà a partire da quel momento, come un occhio che guarda se stesso, è ormai lo sguardo verso una sorgente di vita inaridita. In tanta bravura di scrittura, rimangono forse alcune riserve che sono sempre le medesime quando si parla di Antonioni: un certo distacco fra l'autore e la propria opera, un desiderio di perfezione espressiva che, a tratti, dimentica l'uomo.


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